La perdizione è qualcosa che riguarda il disagio nelle famiglie? In che termini si può dire che nelle famiglie contemporanee si abbia a che fare con della perdizione? Con un danno irreparabile. Con una rovina materiale o una vita viziosa. Questi infatti sono i rimandi dati dal dizionario Treccani alla parola perdizione. A cui si aggiunge anche l’esempio di luogo che offre occasioni di vita dissoluta. La famiglia oggi è un luogo di perdizione? Dipende. Forse si tratta di inserire un trattino nella parola, affinché diventi un luogo per dire.
L’incontro con questa parola nel testo di Lacan mi ha quindi portato a fare attenzione ad un punto del mio lavoro con bambini e adolescenti: il modo in cui un padre interviene nell’esperienza. Quello che dice, che non dice, come prende posizione o non prende posizione; come in famiglia ciascuno parli o non parli con lui, di lui e per lui. Capita che il lavoro con un bambino consista anche nel farsi relè affinché il dire di un padre sia messo in causa. Non tanto invitando un papà a parlare di quello che succede al figlio o chiedendo al figlio di parlare di lui, quanto mobilitando uno spazio in cui, in quella situazione e in quelle condizioni, la sua funzione prenda posto a fianco della sua figura. Per questo è prioritario mettere in gioco una presenza in cui gli oggetti portati dal bambino possano farsi strumento di un appello al dire, andando contro al “versagen, il rifiuto che concerne il detto e, se volessi equivocare per trovare la traduzione migliore, la per-dizione. Tutto ciò che è condizione diventa perdizione. Ed è per questo che il non dire diventa qui il dire di no” [1]. Lacan qui sta parlando della frustrazione, versagen, non riferendola all’oggetto ma al dire. Va così alla radice della frustrazione, parlando della perdizione, dove c’è in gioco un non dire che diventa dire no. Questo tocca l’esperienza del bambino. Nel lavoro con l’infans che abita a qualsiasi età ciascun corpo parlante, occorre mettere una bietta affinché il non dire non sia ridotto automaticamente a dire no. Una bietta è ciò che rende solidali due elementi scollegati permettendo la trasmissione di una rotazione da un elemento all’altro: corpo e parola in questo caso. Quando non ha luogo questa trasmissione non si ha a che fare con qualcosa di abietto? Nel lavoro con un bambino occorre allora fare spazio al collegamento tra corpo e parola, inventando una possibile trasmissione ogni volta a partire dagli oggetti messi in gioco.
Dunque, invece di parlare sempre e solo di frustrazione spostare la questione al rifiuto, addirittura alla perdizione, può orientare un lavoro in cui si lascia uno spazio vuoto, uno spazio dove il non dire non è ridotto al dire no. Al non dire del bambino, dell’adolescente viene spesso attribuito un volere pregiudiziale, che ottura qualcosa di enigmatico. Condizioni, perdizioni. Enigma che forse chiama in causa il mistero del corpo parlante… Un mistero che va messo in gioco.
[1] J. Lacan, Il Seminario. Libro VIII. Il transfert [1960-1961], Einaudi, Torino2008, p. 331.